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Il computer in tasca

di Benjamin Mako Hill, Direttore

[N.d.T.: pubblicato sul <a href="http://www.fsf.org/bulletin/2009/fall">Bollettino FSF, autunno 2009</a>]

Se abbiamo tenuto il passo con quanto dicevano le proiezioni, entro la fine di quest'anno, il mondo ospiterà tre miliardi di telefoni cellulari. Significa quasi un telefono per ogni essere umano vivente. Anche se questi telefoni aprono un mondo di importanti nuove opportunità nella comunicazione, nella creatività e nella collaborazione, ed è importante non sottovalutare questo fatto, rappresentano anche un passo verso una certa distopia tecnologica non troppo diversa da quella descritta da Stallman ne <a href="http://www.gnu.org/philosophy/right-to-read.it.html">Il diritto a leggere</a>. I cellulari rappresentano una delle tecnologie di ampia distribuzione più bloccate, proprietarie, e non libere in generale. Le implicazioni con la libertà del software e il potenziamento tecnologico sono terribili.

Ma, nonostante i telefoni cellulari rappresentino quella che può essere considerata la più grande minaccia odierna alla libertà del software, la comunità del software libero, con alcune notevoli eccezioni che voglio ringraziare e su cui vorrei richiamare l'attenzione, è rimasta per lo più in silenzio su questo argomento.

Conosco strenui difensori della libertà del software che lavorano instancabilmente per liberare se stessi e il mondo da una manciata di blob binari nel kernel Linux, lavoro importante da cui tutti noi traiamo beneficio. Tuttavia, anche tra questi "estremisti" alcuni sembrano non voler sottomettere il proprio cellulare agli stessi standard del proprio computer. La decisione di Ubuntu di fornire un nuovo driver binario è oggetto di discussione più del fatto che la maggioranza della popolazione mondiale che usa computer conosca soltanto smartphone, che rimangono quasi interamente non liberi e non liberabili se paragonati ai personal computer. Per la maggior parte di utenti di smartphone nel mondo, non esiste nessuna scelta di, e in sostanza nessuna speranza di, libertà sul loro attuale dispositivo.

E mi sciocca che chiunque, e in particolare i sostenitori del software libero, sopporterebbe serenamente simili computer non liberi. Credo che in parte la ragione stia nel fatto che la maggior parte di utilizzatori di telefoni cellulari, e anche la maggior parte di utilizzatori di cellulari che hanno a cuore la libertà del software e l'autonomia tecnologica, non pensi al proprio cellulare come a un computer. Pensare ai nostri telefoni come computer non risolverà nessuno dei problemi cui ho accennato. Ma pensare in questo modo è un primo passo fondamentale verso una soluzione. Anche se dobbiamo ancora lavorare per costruire dei telefoni liberi utilizzabili, ampiamente accessibili e convincenti, dobbiamo prima ancora convincere, sia gli utenti che gli sviluppatori, che questo sarebbe un risultato importante. Ricordare alle persone che i nostri telefoni, liberi o non liberi, sono dei potenti computer, rimane un passo importante e per lo più incompiuto verso questo scopo.

Dobbiamo trovare il modo di ricordare a noi stessi e agli altri che i telefoni moderni sono computer potenti con interfacce potenti utilizzabili per una inimmaginabile varietà di applicazioni. Dobbiamo concentrarci sul fatto che questi computer hanno microfoni, telecamere e altri sensori, e noi affidiamo loro i nostri segreti più intimi e i dati più sensibili. Non dobbiamo dimenticare che, nella maggior parte dei casi, questi computer sono controllati, nel modo più completo, da parte di compagnie verso cui pochi di noi hanno totale fiducia.

Non so come raggiungere questo obiettivo. Ma c'è bisogno che molti di noi riflettano a lungo, con grande impegno, e con creatività su questo problema. Io chiamerò il mio telefono "il mio computer" per fare un primo passo, molto personale. L'ho fatto la settimana scorsa e ha comportato conversazioni con alcuni conoscenti un po' confusi. Di certo, questo non rende il mio telefono più libero. Ma significa che sto parlando di più in merito alla mancanza di libertà, fatto che molti di noi hanno affrontato troppo silenziosamente.

In questa fase, sembra quasi un progresso.